Famiglia

Caso Arnett. Le notizie minano l’ideologia

Il diario di Giulia Fossà. Elogio degli inviati in Iraq.

di Redazione

La guerra che doveva essere breve, choccante e stupefacente sta incarognendo. E sta perdendo quel glamour hollywoodiano a lieto fine immaginato dai mediocri sceneggiatori di Oltre Oceano. Abituati a specchiarsi in storie di coraggio e di eroismo adesso gli americani, e noi occidentali con loro, osserviamo sugli schermi televisivi la non-stop dell?orrore. Un?interminabile serie di morti da fuoco amico, di combattimenti degni di West Front e delle trincee della prima guerra mondiale, di quotidiane stragi di civili, insomma il più classico e truce repertorio di ogni guerra. La televisione ha sbancato le grossolane finzioni del Grande Fratello per proporsi con le sue immagini di verità, facendo irruzione nelle case senza riguardo all?ora di pranzo o di cena. Non c?è bugia per quanto sofisticata in grado di reggere l?impatto dell?onda d?urto del racconto di guerra di migliaia di giornalisti, inquadrati e non, free e di regime. Parole che diventano pallottole, microfoni che sono armi, come del resto immaginava Colin Powell prima dell?inizio della guerra. Solo che sono armi puntate in tutt?altra direzione, e danno dell?America una versione meno hamburger rock e coca-cola. Bush si è aggiudicato fra tutti i presidenti Usa un record: quello di aver realizzato il più colossale black-out del circuito informativo mondiale con la sua pasticciata campagna di comunicazione filobellica. Non passa giorno che non assistiamo a rocambolesche messe a punto di un progetto di Guerra che doveva fondarsi sulla velocità, per non turbare gli animi e le Borse, e sul sentimento di liberazione del popolo iracheno. Non c?è zona del paese, per dirla in termini militari, che a due settimane dall?inizio del conflitto sia ?in sicurezza?, non c?è città o villaggio che non sia segnato da una accanita resistenza dei soldati iracheni. Il che, sta accreditando l?idea di un abominevole dittatore dotato che oggi, ahimè, gode di una formidabile popolarità destinata ad accrescersi, via via che veste i panni della vittima, nell?intero mondo arabo. Tutto documentato, registrato, avallato dal lavoro dei giornalisti. Paradossalmente soprattutto quelli al seguito, in grado di raccontare efferatezze, errori e perfino sentimenti dei militari impegnati negli scontri. Nel massacro al ponte di Nassyria il giornalista Marc Franchetti del Sunday Times riferisce di aver sentito dire da un marine: “Non ho nemmeno un?idea di quanti amici posso aver perso. Non me ne frega niente se buttano un?atomica su questo schifo di città, adesso. Da una delle case ci salutavano e al tempo stesso ci hanno sparato con i Kalashnikov”. E a proposito del tenente Matt Martin, il cui terzo figlio, una bambina, era nata mentre era a bordo della nave diretta nel Golfo, riferisce di avergli sentito dire “con gli occhi pieni di lacrime: ?Ha visto quella neonata? Volevo seppellirla, non ne ho avuto il tempo. Mi fa davvero male vedere che i bambini sono uccisi in questo modo. Ma non avevamo altra scelta?”. Lacrime di soldati che per la maggior parte dei casi per loro stessa ammissione non avevano mai visto un cadavere, annusato l?odore di un corpo abbandonato per le strade, pietosamente sepolto dalle tempeste di sabbia. E altre lacrime, riprese dalle tv e annotate dalle biro, demoliscono altre illusioni, quella di una guerra senza coinvolgimento di civili. Il linguaggio delle madri in nero che non nascondono dietro il velo le lacrime per la perdita dei loro figli è più potente ancora di mille marce per la pace. Rumsfeld qualche giorno fa aveva detto in un?intervista accusando gli iracheni di propaganda per le immagini dei prigionieri “?al contrario di ciò che dice la gente è bene chiarire che il nostro è un attacco diretto al regime di Saddam Hussein. Colpiamo obiettivi militari e organi di informazione”. Si riferiva probabilmente alla tv di Baghdad che nonostante i colpi subiti continua a diffondere notizie ed immagini. Un flusso informativo che alimenta la più importante novità di questa guerra, quella Al Jazeera che rappresenta con vigore il punto di vista arabo. Informazioni che non conoscono embargo, raccolte dagli organi di stampa e dalle emittenti televisive anche anglosassoni che fanno scolorire l?obiettività patriottica della Fox e insidiano il primato della Cnn, assoluto ai tempi della prima guerra, del Desert Storm. Allora il successo di Peter Arnett, che ora per le sue dichiarazioni alla tv irachena, certo non filo Usa, ha subito il licenziamento dalla Nbc in cui si era arruolato. Segno di una situazione non pianificata dal vertice statunitense. Che per imporre la propria verità dovrebbe censurare a colpi di spazi bianchi il servizio del giornalista embedded John Reading, sul Washington Post, che racconta le responsabilità dell?uccisione di una famiglia irachena su un Toyota al check point. Pallottole, shot, che in inglese significa anche ripresa cinematografica. E interrompere il flusso di notizie che corre su Internet, luogo di scambio di e-mail dei militari con le famiglie. La credibilità dei messaggi della Casa Bianca è messa in crisi anche dai telefonini di cui dispongono le truppe, altra arma sottovalutata. A Baghdad i giornalisti scacciati come tanti uccellacci dalle terrazze del palazzo dell?informazione bombardato, sciamano nei campi da tennis dell?Hotel Palestine, ultimo fronte dei media, trincea di uomini che girano con il nome appeso al collo. Quell?Hotel Palestine domicilio coatto per i sette giornalisti italiani fermati qualche giorno fa a Bassora. Condannati ad una punizione bunueliana per aver tentato di raccontare una città, grande come Milano, ostaggio delle fazioni di Saddam, impenetrabile alle forze della coalizione. Testimoni di una verità scomoda a tutti, indigesta agli Stati Maggiori delle parti in conflitto. E temono più l?ira censoria degli Dei di Washington che l?errore fatale di qualche missile superintelligente. Tutto questo potrà essere ordinato, Bush lo spera, se la guerra imboccherà una via più propizia agli aruspici del conflitto, ma che intanto sta demolendo ? come scrive Robert Fisk sul The Indipendent ? “ogni tipo di bugia e falsità usate per sostenere questo progetto ideologico”. E Fisk fa anche notare maliziosamente che non si parla ormai più di 11 settembre, e in modo sempre più imbarazzato di Democrazia e Libertà. di Giulia Fossà


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